sabato 28 settembre 2013

Il farmaco dell'immortalità degli antichi



Dalla sua nascita ad oggi la psicologia ha fatto di tutto per sembrare e diventare “scientifica” agli occhi della comunità e soprattutto dei colleghi medici, nonostante l’oggetto dei suoi studi fosse poco replicabile e di difficilissima indagine. La religione, invece, in quanto complesso di credenze, comportamenti, atti rituali e culturali pressoché universali e vecchi quanto il genere umano, ha sempre poggiato il suo potere e la sua prosperità su un concetto fondamentale quale la fede, potentissima ma irrazionale quanto basta per essere avulsa da qualsiasi indagine scientifica[1]. Per questa enorme differenza concettuale, sembra quasi impossibile accostare la psicologia alla religione, senza immaginare uno scontro ideologico di notevole portata. Tuttavia l’esperienza religiosa non è altro che una
sfaccettatura dell’esperienza umana: Jung, ad esempio, intendeva la religione come il legame con qualcosa che è fuori di noi, con il trascendente, che aiuta il processo di individuazione, cioè quel processo che porta alla realizzazione del nostro potenziale sviluppo, che favorisce il divenire di noi stessi, e ci aiuta a terminare la vita in modo pieno e soddisfacente. In uno dei suoi scritti, accostò l’esperienza religiosa alle immagini primitive e simboliche che ricolmano della loro vita eterna le più recondite profondità della nostra anima: queste immagini primordiali del nostro incosciente le definì “il farmaco dell’immortalità degli antichi” in quanto nutrono la vita spirituale (Jung, 1942). Da questa nuova angolazione possiamo quindi accogliere il modo in cui la psicologia e la religione si interfacciano.
La psicologia, infatti, fin dai suoi esordi si è occupata del modo in cui l’esperienza religiosa potesse influenzare l’esperienza del singolo, dei gruppi e delle civiltà: più in generale si è impegnata nella ricerca del modo in cui la religione cambia la nostra percezione di noi stessi, degli altri e del mondo. È in questo modo che si è accostato e studiato il concetto di peccato con il senso di colpa provato dalle persone; sono stati interpretati i rituali come drammatizzazione e facilitazione di cruciali e delicati eventi evolutivi, sociali e di vita o, all’estremo opposto, come semplici e banali comportamenti stereotipati messi in atto per soddisfare il bisogno di appartenenza ad un dato gruppo o ad una data comunità; sono state analizzate le liturgie, i simboli religiosi, le immagini sacre e le preghiere considerandoli come potenti veicoli di trasmissione di valori e di norme civili e culturali o come sterili e futili rappresentazioni prive di qualsiasi qualità o valore. Attraverso le sue indagini la psicologia ha messo sempre più in evidenza la differenza tra una religiosità intrinseca, legata ad una propria filosofia di vita, (che produce cambiamenti comportamentali), e una religiosità estrinseca, legata ad un bisogno di appartenenza sociale e di gruppo, più vicino al fenomeno del settarismo.
Nella religiosità intrinseca ritroviamo una persona che abbraccia una determinata religione, che ne carpisce (e ne capisce) il significato intimo, ha “fede” nei suoi valori e prova a metterli in pratica nella propria quotidianità. Questo comportamento non fa altro che donare un senso alla propria vita: man mano che passano i nostri anni e inesorabilmente ci avviciniamo al tramonto della nostra esistenza, è possibile che la precarietà della nostra condizione ci spinge in questa direzione. L’aspirazione alla compiutezza, la pienezza di vita e la realizzazione di sé, infatti, si allontanerà sempre più da una logica di tipo materiale/pulsionale per avvicinarsi sempre più ad un sistema di valori immateriale/spirituale[2]. L’esperienza religiosa favorisce e coltiva un’esperienza di tipo spirituale: allo stesso modo in psicologia questo cambiamento può essere favorito e stimolato nel corso di una psicoterapia. Se consideriamo la psicoterapia convenzionale non come avente il fine di far adattare l’individuo alla società, ma come strumento alternativo per un più importante adattamento della persona a qualcosa di più universale, ovvero alla propria natura, ci risulta più chiaro come essa possa aiutare le persone nella loro realizzazione (Naranjo, 2011). Parlare di psicologia e di religione implica parlare di crescita personale, di cura e di indirizzamento alla pienezza spirituale; vuol dire recuperare le funzioni di salute, di sviluppo umano e di trascendenza dal corpo, dalle emozioni, dalla mente intellettuale e dal senso abituale d’identità invitando le persone a mettere da parte il controllo abituale della propria espressione per permettere così l’emergere di qualcosa che è più spontaneo e più vicino alla nostra vera essenza.
In questo articolo mi sono limitato a riportare delle considerazioni sulla base di esperienze vissute in prima persona e che in quanto tali, non vogliono avere un carattere assoluto. In questo momento della mia vita, mi piace pensare di impegnarmi affinché possa utilizzare lo strumento terapeutico come veicolo per somministrare il farmaco dell’immortalità degli antichi, promuovendo, attraverso un impegno in prima persona, una rinascita spirituale. Anche in questo caso può essere utilissimo non dimenticare mai che esistono svariati sentieri che possono favorire il nostro processo di crescita e di realizzazione (Buonaiuto, 2013). Cercare la compiutezza su più sentieri diversi e farne una propria e personale sintesi chiara, può essere migliore di far sì che tutti seguano lo stesso sentiero.

BIBLIOGRAFIA
BUONAIUTO G., Il contratto in terapia. Guida pratica al primo approccio con il paziente,
FerrariSinibaldi Editore, 2013, Milano.
JUNG C.G., Le diverse età dell’uomo (1930), in Il problema dell’inconscio nella psicologia
moderna, Einaudi Editore, 1942.
Energetica psichica (1928), in Opere, Boringhieri, Torino, 1976, vol. VIII.
NARANJO C., Amore, coscienza e psicoterapia. Verso una nuova educazione dell’essere umano,
Xenia Edizioni, 2011, Milano.




[1] Con questo non voglio sminuire l’essenza stessa della religione. Ritengo anzi che la religione ha compiuto nei secoli un’importante operazione terapeutica per tutta l’umanità, traghettandola dalle barbarie alla civiltà.
[2] Jung definisce e concepisce lo “spirito” come l’opposto della pulsionalità: “la limitazione delle pulsioni mediante processi spirituali si afferma nell’individuo con la stessa forza e con lo stesso successo che si constata nella storia dei popoli” (Jung, 1976). 

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