mercoledì 11 aprile 2012

Dopo tutto, era solo un sogno



Psicoterapia della Gestalt
Il Sogno - Picasso
Spesso considerati strani, misteriosi, amati e temuti, i sogni da sempre sono stati visti come prodotti umani, e talora con implicazioni divine, pieni di fascino e di mistero. Molteplici, inoltre, sono state le ipotesi riguardanti la loro genesi, la loro finalità, i loro significati palesi e soprattutto nascosti. Ma c’è una grande differenza tra i sogni sognati e i sogni ricordati, quelli vissuti passivamente e quelli raccontati.
A questo proposito analizzeremo brevemente i meccanismi e il linguaggio che sottende l’attività onirica, vaglieremo le caratteristiche che rendono il sogno di cui abbiamo consapevolezza un effimero ricordo e concluderemo esplicitando in che modo possiamo utilizzare questo materiale ricordato e raccontato per un buon intervento terapeutico.

1.     Veglia, sonno e sogno
  Veglia, sonno profondo (o sonno non-REM), sonno desincronizzato (o sonno REM) sono tre stati diversi, ma strettamente integrati, della complessa attività del Sistema Nervoso Centrale, e rappresentano il continuum vitale dell’uomo. Questi tre stati sono sottomessi ad una regola fondamentale che si potrebbe definire “della separazione e della non interferenza”. 
Nella normalità infatti, questi stati sono nettamente separati l’uno dall’altro, il passaggio avviene in maniera graduale e codificata, particolari meccanismi neurofisiologici, tramite la loro attivazione o disattivazione, impediscono qualsiasi interferenza o sovrapposizione[1].
Numerose ricerche neurofisiologiche  e psicofisiologiche hanno provato a comprendere l’attività onirica che si svolge durante il sonno REM e non-REM.
Inizialmente si è ritenuto che il sogno in quanto tale venisse svolto solo durante la fase REM; Foulkes evidenziò invece una ricca presenza di attività mentale anche durante il sonno non-REM, ed in corso di addormentamento. Le componenti mentali del sonno non-REM presentavano una ridotta componente visuo-allucinatoria, un minor coinvolgimento emotivo ed una povertà e staticità dei personaggi agenti nella scena, con caratteristiche più simili al pensiero cosciente.
Attualmente molti ricercatori concordano sul fatto che il lavoro onirico più vivido viene svolto durante la fase REM e con modalità ben precise. Ad esempio il sogno si esprime mediante un linguaggio, la cui caratteristica fondamentale è di essere costituito prevalentemente per immagini[2]. Queste immagini sono caratterizzate da due proprietà principali: la sinteticità e l’ambiguità. L’immagine ci fornisce infatti una informazione più rapida e sintetica, ma in qualche modo anche meno definita e precisa. In altre parole l’immagine, più della parola, può avere significati multipli, perché essa rende possibili due meccanismi: la condensazione e lo spostamento. In questo modo una immagine può fondersi o sostituirsi ad un’altra, dando luogo al simbolo, che sulla base di connessioni profonde può rappresentare, al di là delle apparenze qualche cosa di diverso[3].
Sono inoltre caratteristiche del linguaggio onirico altre due modalità, tipiche del processo primario: assenza delle categorie temporo-spaziali e persistenza del principio di contraddizione, per cui possono accadere cose antitetiche ed opposte, senza che questo desti nel sognatore, stupore o incredulità.
Quindi la struttura del linguaggio onirico è caratterizzata da spostamento, condensazione, simbolismo, assenza del principio di continuità, di contiguità e di quello di non contraddizione. Se questa è la struttura del linguaggio onirico, i contenuti sono immagini che possono derivare da:
a)   immagini riguardanti il passato;
b)   immagini tratte da situazioni presenti (resti diurni);
c)   costituzione di immagini completamente nuove.

Le scene possono essere semplici o molto complesse ed articolate. Normalmente il soggetto vive il sogno come realtà[4]. L’esperienza onirica viene successivamente, nella veglia, organizzata in un racconto del sogno che ascoltato e recepito dal terapeuta ne rende possibile l’interpretazione o il suo utilizzo.

2.     Il sogno e l’oblio
       Come abbiamo accennato sopra, alcuni studi mostrano che il sogno propriamente detto avviene, e probabilmente occupa, gran parte della fase REM, che nell’adulto corrisponde circa il 20% del sonno totale, ovverosia circa 80-90 minuti per notte. Altre ricerche invece evidenziano che il sogno, per quanto articolato e complesso, può avvenire nell’arco di pochi secondi[5]. Al di là della quantità di tempo che spendiamo mediamente ogni notte a sognare, a parte rare eccezioni legate ad un sonno molto leggero ed interrotto, al mattino in genere si ricordano solo pochi sogni. Quindi dobbiamo ritenere che di tutta la complessiva produzione onirica, noi riusciamo a ricordarne solo una parte minima.
Questo oblio del sogno è dovuto a diverse cause[6]. Statisticamente e sperimentalmente si segnala:
·  che il ricordo del sogno cade velocemente dopo la fine del periodo REM;
·   che risvegli notturni o bruschi concedono un ricordo maggiore dei sogni rispetto ai risvegli graduali;
·  che si ritengono meglio i sogni mattutini, nonché quelli più lunghi e più ricchi di intensità emotiva.
A queste condizioni generali vanno aggiunte le differenze individuali, che a livello sperimentale hanno dato i seguenti risultati:
·  ricordano di più i sogni coloro che hanno una totalità di tempo onirico maggiore, coloro che presentano un maggiore grado di ansietà, coloro che tendono ad essere più introspettivi;
·  ricordano di meno coloro che hanno una personalità più repressiva e meno creativa, come hanno rilevato prove condotte su studenti di ingegneria rispetto a studenti di discipline artistiche, coloro che fanno sogni abbastanza realistici e logici, e coloro che hanno una maggior memoria visiva e che quindi si meravigliano meno dei loro sogni in quanto possono più facilmente integrarli nel pensiero diurno.
A questo dobbiamo aggiungere le ipotesi psicoanalitiche che fanno riferimento alla censura, alla resistenza[7] e alle condizioni di transfert[8] che si instaura tra chi fa il resoconto del proprio sogno e l’ascoltatore.
Tutto questo ci fa dedurre che ci deve essere una differenza tra la complessiva attività onirica ed il sogno o i sogni che ricordiamo.
È normale che di notte sogniamo e che poi, al risveglio, ci ricordiamo sotto forma di racconto quello che sogniamo; se dimentico il sogno, vuol dire che mi dimentico il racconto che ho fatto dell’evento notturno. Se ci fate caso, quando ci svegliamo ci raccontiamo il sogno, e se il sogno era particolarmente interessante magari lo raccontiamo ad un amico. Non cerchiamo di ricordare quello che abbiamo sognato la notte, ma in un certo senso, cerchiamo di ricordarci il ricordo/racconto che ci siamo fatti al risveglio. E mentre lo ri-raccontiamo è possibile che ci venga in mente un altro particolare, come se nell’atto di raccontare si incominciasse ad inserire dei particolari in più, che vengono vissuti come qualcosa che ci si è dimenticati, ma che più verosimilmente ci si sta raccontando adesso. Il racconto del sogno è influenzato anche dal rapporto con la persona alla quale lo sto narrando, questo è particolarmente evidente quando il sogno è raccontato al proprio terapeuta.
Si comincia ad articolare e strutturare un racconto: una narrazione del sogno “vissuta come ricordo”.

3.     Il Sogno in terapia
“Il sogno è un pezzo d’arte che ceselliamo fuori delle nostre vite”.
 Perls
      Dell’attività onirica in sé non ne abbiamo coscienza in quanto il sogno reale nessuno sa esattamente come è fatto: accediamo ai sogni e ne prendiamo consapevolezza solo durante il nostro stato di veglia e solamente mediante il nostro ricordo e il successivo racconto. In quest’ottica possiamo considerare il sogno principalmente come “il ricordo” per eccellenza.
Probabilmente l’attività onirica nel suo insieme ha numerose e complesse funzioni, il sogno ricordato ha una funzione specifica diversa. I sogni che si ricordano, riguardano esperienze oniriche significative e strettamente collegate con le dinamiche psicologiche conflittuali o comunque più importanti in quel momento, per quella persona. Possiamo pertanto pensare che i sogni che si ricordano, sono tentativi di visualizzare ed a volte tentativi di risoluzione di conflitti, di problemi o di particolari dinamiche psicologiche del soggetto.
Genericamente, è per lo più riconosciuto che il sogno rende consapevole e comunicabile la natura e la complessità del mondo interno del sognatore o, più in particolare, citando Perls, i sogni che ricordiamo sono tentativi di mandare “un messaggio esistenziale” al soggetto stesso, un modo per comunicargli nel suo particolarissimo linguaggio come conduce oggi la propria vita. “È più di una espressione di desiderio, è più di una profezia, è più di una situazione incompiuta. È un messaggio di te stesso a te stesso, a qualsiasi parte di te ti stia ascoltando”.
Infatti, come dicevamo, c’è differenza tra il sogno sognato e il racconto del sogno, che è anche la concettualizzazione dell’evento onirico in una forma narrativa e la sua riorganizzazione in termini tali da poter essere ricordato. Solo dopo questa operazione il sogno può essere raccontato a un altro. La traduzione in termini narrativi del sogno segue le norme del “sistema di credenze” del sognatore, che operano nella sua vita da sveglio. Il sogno come lo ricordiamo è, quindi, anche una rappresentazione dell’organizzazione cognitiva con la quale costruiamo la nostra visione di noi stessi nel mondo.
È proprio questo aspetto così peculiare del sogno che lo rende prezioso in terapia. Ma come approcciarci ad esso? Come utilizzare al meglio, per il soggetto, tutte le informazioni che ci consegna attraverso il suo ricordo del sogno?
Tutta la letteratura riguardo al sogno, visto come realtà ricordata e narrata in un contesto psicoterapeutico e sottoposta alla ricerca analitica di un significato, afferma l’esigenza che la comprensione di un sogno e l’individuazione dei suoi significati implichi sicuramente più di un percorso per trovarne il senso. Il soggetto infatti, per così dire, con il sogno sta facendo assai più di quanto egli stesso se ne renda conto e conseguentemente occorre utilizzare più percorsi per comprenderne la realtà.
Partiamo dalla sua interpretazione: abbiamo parlato del linguaggio del sogno che è fatto di simboli e di meccanismi che sfuggono la logica a cui siamo abituati a pensare. Il sogno, come il linguaggio del bambino, è fuori dai principi della logica e dalle categorie dello spazio e del tempo. Ciò non vuole dire che nel sogno non vi sia logica, ma piuttosto che essa risponde a leggi diverse. Tuttavia, come riportato sopra, il sogno è allo stesso tempo qualcosa di strettamente connesso alle dinamiche psicologiche che il soggetto sta vivendo nel momento attuale. Per questo motivo approcciarsi al sogno secondo i classici schemi di interpretazione generale può fuorviare e distorcere il messaggio del sogno e può, in altre parole, privare il sogno della sua spontaneità, e soprattutto impedirci di considerarlo come la creazione personale di quell’individuo nella sua unicità. I segni, i simboli e le metafore riportate nei sogni hanno senza dubbio valore universale, ma essi assumono significati fondamentali per l’individuo in relazione alla sua personalissima esperienza, frutto di quell’unico modo di essere nel mondo.
Il simbolo va inserito nel contesto della realtà del sognatore, con la sua esperienza culturale e le sue personali vicissitudini: lo sforzo di chi lavora con il sogno è quello di tradurlo in termini adattabili alla vita quotidiana del soggetto.
In base a tutte queste considerazioni ne consegue una particolare modalità di porsi del terapeuta di fronte al sogno del paziente: esso deve partire dalla premessa che l’unico che ne sa qualcosa in proposito è proprio lui, il paziente. Il vero specialista nella comprensione del sogno è chi lo ha sognato. È lui che ne ha costruito la trama e ne possiede i significati: soprattutto ne ha vissuto l’esperienza. Gli strumenti interpretativi classici sono insufficienti per accedere alla creatività del sogno.
Molto più utile risulta essere un attitudine del terapeuta a “stare” con il soggetto  attraverso un sottile silenzioso dialogo Io-Tu, un entrare in contatto con la persona che sta di fronte e con il mondo di sollecitazioni fisiche, emotive e cognitive che sta offrendo, non rivolgendo l’interesse al solo racconto e ai contenuti del sogno, ma al processo nella sua globalità. Guardare il paziente con i suoi gesti, espressioni, respiro, voce, stando attenti ai segnali emotivi, attraverso una attitudine meditativa e rilassata, permette di entrare in contatto profondo, e altrettanto profonda  risulterà essere la comprensione dell’esperienza dell’altro.
Attraverso questo atteggiamento, l’intervento tecnico del terapeuta si farà luce da solo è sarà più corrispondente a quella specifica relazione, con quello specifico paziente, che non ad un generico intervento da usare indifferentemente con questo o con quello.
            Una volta raggiunte queste premesse si può passare poi ad utilizzare una serie di tecniche che possono guidare il soggetto nel prendere contatto con il contenuto del sogno e soprattutto permettano di reintegrare le parti alienate di sé.
Spesso quando un paziente racconta un sogno, lo fa con tono piatto e inespressivo. Sembra che la sua storia non gli appartenga, che quello che dice sia privo di interesse, sia incomprensibile, come estraneo da sé. L’idea che c’è dietro è che un sogno è una fantasia e per questo è irreale.
Come primo obiettivo bisogna far sperimentare al paziente che il sogno rappresenta il suo modo di vivere, che si manifesta in uno stato di coscienza diverso da quello dello stato di veglia. Bisogna favorire il contatto con l’esperienza sognata e quindi la prima integrazione tra il sé paziente e il non sé sogno, attraverso il riconoscimento che il sogno è la sua stessa esistenza.
Riferirlo al presente e con più enfasi è la prima consegna ed è probabile che permetta al soggetto di riscoprire se stesso e aspetti della sua vita, in quell’insieme di immagini raccontate come un’esperienza estranea. Quando le si fa aggiungere ad ogni frase del racconto “…e questa è la mia vita!”, il contatto con il suo modo di vivere è immediato.
Il riferirlo al presente, con l’attitudine a considerarlo come aspetto della propria esistenza, permette di riavvicinare le parti alienate del sé e di ristabilire con esse un contatto non mediato dalla interpretazione del terapeuta, ma frutto della propria esperienza.
Riportare il sogno nel “qui e ora”, narrandolo al presente, inoltre, interrompe la frattura con il passato e ricorda che l’unico tempo che sto vivendo è quello attuale. Il passato non c’è più e il futuro è soltanto possibile[9]. La ragione profonda è che se vivo consapevolmente la mia esperienza con piena presenza, non c’è scissione tra sperimentatore ed esperienza vissuta. Sono pienamente coinvolto o, detto in altro modo, in profondo contatto. In fondo la nevrosi deriva proprio dalla mancanza di contatto con l’esperienza che vivo. La mente mi imprigiona con i giudizi, i modelli, gli ideali e mi separo sempre più dal bisogno reale. Quando sono pienamente immerso nel qui e ora non c’è più spazio per l’impasse, perché l’unica realtà esistente è quella che sto vivendo, non c’è una approvazione o una disapprovazione, entrambe provenienti dal passato sperimentato o dal futuro paventato sotto forma di fantasia allucinatoria che non mi permette di vivere la realtà del momento.
            Un’altra caratteristica del sogno che è possibile sfruttare per ottenere informazioni sul modo d’essere del soggetto è il “vissuto d’azione” che esso comporta. Nei sogni, infatti, il non fare non è dato; un sogno immobile non viene raccontato e quello che raccontiamo sono sempre azioni con la certezza e la sicurezza che qualunque cosa sognerò, qualunque sia il mio vissuto d’azione, mi risveglierò nel mio letto.  Questo ci porta ad ipotizzare che nel sogno è possibile che incontriamo le azioni che non facciamo nella realtà, le azioni che non compio, quando posso muovermi realmente, quando ho la possibilità di agire nel mondo esterno. Ovviamente il sogno non è solo questo, ma può essere interessante tenere conto di questo, come una possibilità di lavoro sul sogno.
Molto spesso è importante riconoscere in qualche modo l’azione mancante: l’azione del sogno in che modo ospita quello che non faccio nel mondo?
Questo ci porta a considerare l’influenza del sogno sul copione di vita, sulle azioni bloccate e ripetitive. La non azione reale in cui avviene l’evento sogno, permette, all’interno della relazione terapeutica, di contattare la sua polarità che appare nel sogno come vissuto di azione in qualche modo interrotta nel mondo reale del cliente. 

4.     Al di là del ricordo
Non limitarti a ricordare il sogno ma “riportalo in vita”.
Claudio Naranjo

Tutte le diverse parti del sogno sono frammenti della nostra personalità.
Dato che il nostro scopo è quello di fare di ognuno di noi una persona sana,
 il che significa una persona integrata,
 quello che dobbiamo fare è rimettere insieme i vari frammenti del sogno.
 Dobbiamo riappropriarci di queste parti proiettate e frammentate della nostra personalità,
 e riappropriarci del potenziale nascosto che compare nel sogno.
Perls
Un altro modo più sintetico e creativo per sperimentare insieme il qui e ora e il messaggio esistenziale del sogno, è quello usato da Perls di far vivere le parti del sogno drammatizzandole. In questo caso il sogno viene trattato come esperienza diretta del paziente piuttosto che interpretato. L’idea portante che Perls utilizza per sviluppare la sua tecnologia di intervento sul sogno è che esso sia, in ogni sua componente, l’insieme delle proiezioni delle parti della personalità del sognatore. Quindi, secondo Perls, è importante che la persona possa entrare in contatto con le figure del sogno per riconoscere in quale modo gli appartengono. Il processo di integrazione e crescita personale parte da questa operazione. Nel far ciò Perls considerava ogni elemento del sogno, ogni oggetto, persona, animale, sentimento come una proiezione[10] e considerava il processo terapeutico sul sogno come una riappropriazione ed una integrazione di queste proiezioni.
La tecnica spesso adottata per favorire questo processo di riappropriazione delle proiezioni, è quella di invitare il paziente a ripercorrere il sogno riattualizzandone le vicende nella interpretazione drammatica.
La drammatizzazione delle parti del sogno infatti favorisce il contatto e la reidentificazione con gli aspetti alienati del sé. Lo scopo ultimo di quest’ultima è di ripristinare il contatto con la consapevolezza interrotta, per reintegrarne i tre livelli di esperienza: sensoriale, emotiva e cognitiva che, procedendo dallo sfondo in primo piano, vengono riacquisiti dalla personalità. Essa inoltre consente di andare oltre le limitazioni che il soggetto si pone nella sua vita reale e le conseguenti modalità esistenziali attraverso operazioni di riattualizzazione e l’esplicitazione delle scelte omesse o possibili.
Il soggetto che ha prodotto il sogno diviene soggetto/sceneggiatore, oltre che attore e regista, del copione a cui dà vita nell’interazione con il gruppo e/o con il terapeuta: inizia con lo scegliere i personaggi e gli oggetti che rappresenteranno le figure del sogno. Nel gioco delle parti, nell’espressione più profonda dei ruoli, nel loro mutamento e sviluppo drammatico, lo svolgimento della rappresentazione rievoca la trama della propria vita (o parte di essa); il processo svela il tessuto esistenziale agli occhi stessi del sognatore divenuto attore/osservatore. Il racconto della propria vita coincide con il destino personale, ma è anche la trama scelta che nella mente diviene destino: in quanto è l’identificazione con la propria storia che dà vita al sistema di credenze che orienta le scelte di un individuo e lo àncora a un carattere.
La drammatizzazione terapeutica parte quindi dalla analisi, in senso registico, sul testo del sogno: paziente, gruppo e terapeuta, con i loro diversi ruoli, diventano lo strumento che dà forma e muove il campo dinamico definito dal soggetto/sceneggiatore. A questo punto infatti, sia nella situazione di diade terapeutica che in quella di gruppo, il lavoro terapeutico coincide con il montaggio della azione del sogno. Il terapeuta diviene una sorta di accompagnatore empatico, che svolge la sua azione maieutica partendo dal principio che gli elementi del sogno sono definibili soltanto rispetto alla relazione con l’insieme come, per esempio, le note di una melodia.
L’interpretazione del terapeuta naturalmente non è del tutto assente, interviene necessariamente quando dirige il lavoro guidando il paziente. Tra le varie scelte possibili ne effettuerà una che sarà la sua personale risposta alla esperienza che il paziente gli offre. È un po’ come disegnare un tracciato lungo il quale entrambi, paziente e terapeuta, si possano muovere.
La drammatizzazione permette, quindi, di giocare i propri ruoli e le dimensioni di sé nell’area protetta del setting.
Il paziente entrando nel “come se” del setting terapeutico inizia ad uscire dalla situazione di fissità emotiva o di visione della vita in bianco e nero, cioè senza mezzi toni, per cominciare a rendere fluido il gioco dei sentimenti, ritrovare la rabbia inespressa nel senso di colpa, la possibilità che amore e odio possono coesistere, scoprire insomma, l’infinita scala di grigi contenuti tra il bianco e il nero. Durante questo processo il paziente sviluppa la fluidità dei sentimenti insieme alla capacità di viverli diventandone consapevole, mentre sperimenta, realmente e onestamente, le sue emozioni.
Questa sperimentazione simbolica, nel qui ed ora della terapia, di vissuti affettivamente reali ai quali possono seguire delle risposte diverse da quelle consentite dalla situazione originale, ormai passata e immutabile, permette di ristabilire la maturazione e lo sviluppo di quegli strumenti affettivi e cognitivi non disponibili al paziente nelle situazioni traumatiche originarie.
Il passaggio tra l’evento raccontato (ad es. il sogno), che come accennato prima è ormai fissato nella sua incompletezza — in quanto evento passato — e l’operazione di riattualizzazione svolta nella seduta psicoterapeutica, permette al paziente che “interpreta” se stesso, nel copione del sogno da lui sceneggiato, di chiudere le situazioni inconcluse della sua vita.
Come diceva Perls “…l’unico pericolo è che il terapeuta intervenga troppo rapidamente a salvarti, dicendoti quello che succede, anziché lasciarti la possibilità di scoprirlo da solo”.

Conclusioni
Siamo giunti al termine di questo breve elaborato che ha avuto come filo conduttore il sogno, nei suoi aspetti che riflettono la natura psichica del sognante. Abbiamo analizzato sia gli aspetti riguardanti il lavoro onirico vero e proprio, sia la consapevolezza che abbiamo del sogno nel nostro stato di veglia. Ci siamo soffermati principalmente sul ricordo che abbiamo del lavoro onirico e abbiamo provato ad esplicitarne il significato ed un eventuale utilizzo in ambito terapeutico. Nel far ciò, è risultato più chiaro che la vita del sogno non è diversa da quella diurna in quanto è frutto della stessa dinamica psichica che muove il soggetto nel mondo. Forse è proprio a questo che alludeva Shakespeare quando affermava che noi “siamo fatti della stessa materia con la quale sono fatti i sogni”.


Bibliografia

· A. FERRARA, Il Sogno come esperienza: un messaggio esistenziale per reintegrare le parti alienate di sé, in “Il sogno in Analisi Transazionale”, Atti delle giornate sorrentine di aggiornamento in AT, a cura di M. Gaudieri e L. Quagliotti, Tommaso Marotta Editore, Napoli, 1989.
· F. PERLS, - R.F. HEFFERLINE - P. GOODMAN, Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 1971.
· O. ROSSI, Lavorando sul sogno, in “Psicoterapia della Gestalt contemporanea. Esperienze e strumenti a confronto”, a cura di Maria Menditto, FrancoAngeli, 2011.
· U. GALIMBERTI, Dizionario di psicologia, UTET Libreria, 2006.
· F. PERLS, L’approccio alla Gestalt, Astrolabio, Roma, 1977.
· M. CAVALLO, - F. LEONE, Sogni Lucidi. Il paradosso della coscienza, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997.
· N. LALLI, Veglia, sonno e sogno, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997.
· U. PISCICELLI, Sonno, sogno e trance, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997.
· P. GENTILI, Il sogno in psicoterapia come desiderio e come relazione di aiuto, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria n° 31”, Roma 1997.
· O. ROSSI, Il teatro del sogno come flusso della condotta, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997 .
· M. JAMES, - D. JONGEWARD, Nati per vincere. Analisi Transazionale con esercizi di Gestalt, Edizioni San Paolo, Milano, 2005.

[1] Nella patologia questa regola viene meno, tanto da ritenere che la sovrapposizione o l’interferenza tra questi stati, sia un segno patognomonico del disfunzionamento mentale. Ne citerò due per esemplificare. Da una parte la narcolessia, la cui genesi è legata alla netta riduzione del tempo che deve intercorrere tra la fine dello stato di veglia e l’inizio della fase REM: arco di tempo definito “latenza REM” e che nell’uomo ha una durata media di 70’-80’. Questo passaggio nella narcolessia avviene invece immediatamente creando i tipici segni del disturbo: l’incoercibile sonnolenza e la caratteristica atonia muscolare. Dall’altra le allucinazioni del delirium tremens che sono dovute ad una sovrapposizione della fase REM nello stato di veglia.
[2] La maggior parte dei sogni è priva di tonalità cromatiche anche se esistono dubbi in proposito dovuti al fatto che l’incidenza del colore aumenta in rapporto alla vicinanza temporale tra il sogno e il suo resoconto. Nei ciechi, inoltre, si hanno sogni visivi quando la cecità è insorta dopo il sesto-settimo anno di vita, mentre i ciechi dalla nascita riferiscono sogni in cui sono implicate immagini non visive ma collegate ad altre modalità sensoriali. Ciò ha fatto pensare che i movimenti oculari non siano collegati tanto alla visione quanto all’immagine del sogno.
[3] A differenza del segno che indirettamente rimanda alla presenza di una realtà precisa e del segnale che è un indice convenzionale ed esplicito.
[4] Nell’esperienza dei “sogni lucidi” il soggetto invece “sa” che sta sognando. Questa evenienza può indicare un tentativo di superamento dell’angoscia, nel senso che se il contenuto del sogno suscita angoscia, pensare che si sta sognando, è un modo per sdrammatizzarlo.
[5] Secondo Aserinsky e Kleitman (1953) spesso durante il sonno REM si verificano brevi risvegli e movimenti corporei capaci di frammentare il sogno, facendo in modo che il ricordo del materiale che precede il risveglio venga perduto. Maury ritiene invece che il sogno venga addirittura costruito una frazione prima del risveglio.
In uno studio, Dement e Kleitman svegliarono cinque soggetti ogni cinque o quindici minuti dopo l’inizio dei loro periodi REM, e chiesero loro di dire quanto tempo era passato. Quattro su cinque soggetti riuscirono sempre ad indicare il tempo giusto. Lo stesso studio mostrò che i sogni riferiti dopo quindici minuti di sonno REM erano più lunghi di quelli avvenuti dopo cinque minuti. Queste relazioni sembrano contraddire la nozione di sogni istantanei. Tuttavia non provano che il tempo del sogno sia identico al "tempo reale", ma indicano solo che in genere i due tempi sono reciprocamente proporzionali (in LaBerge, 1985, p. 77).
[6] Il dimenticare il sogno può essere considerato una tendenza ad alienare dalla consapevolezza le forze “pericolose” che si affacciano alla coscienza mascherate dietro il linguaggio metaforico del sogno. Perciò il sogno fugge così rapidamente, oltre alle ben note spiegazioni di tipo fisiologico sulla memoria a breve e a lungo termine.
Dal sogno infatti possono emergere immagini di sé che non corrispondono al proprio Io idealizzato e anche esperienze dolorose del passato coperte dall’adattamento al proprio modello di vita, che se emergessero porterebbero dolore e umiliazione. Il sogno contiene i nuclei del proprio copione, e affrontarli produce sofferenza.
Il sonno buio e la dimenticanza in esso difendono dal contatto con i sé alienati, gli affari non compiuti che reclamano attenzione.
Naturalmente è proprio il conoscere e rivivere il dolore che porterà al suo superamento. Richiamando alla luce i messaggi nascosti dei nostri sogni li demistifichiamo e riduciamo le possibilità di farci ferire.
[7] La censura è una funzione dell’apparato psichico che preclude ai contenuti inconsci inaccettabili e ai loro derivati di accedere alla coscienza.
La resistenza si riferisce all’opposizione inconscia ad accedere alle proprie dinamiche profonde.
[8] Il transfert designa in generale la condizione emotiva che caratterizza la relazione del paziente nei confronti dell’analista, e in senso specifico il trasferimento sulla persona dell’analista delle rappresentazioni inconsce proprie del paziente.
[9] Presentificare il passato o il futuro, attraverso la fantasia ha precedenti in discipline spirituali più vecchie della terapia. Naranjo afferma che è alla base della storia del dramma e del recitare i sogni, come fanno alcuni popoli primitivi.
[10] Perls affermava che per effetto della proiezione “abbiamo disconosciuto, alienato certe parti di noi stessi e le abbiamo messe nel mondo, fuori di noi, piuttosto che averle disponibili come proprio potenziale”. La conseguenza è che viviamo scissi e frantumati: l’obiettivo della terapia è di facilitare la reintegrazione.

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